
Nel giro di un paio di giorni, Cecil è morto in Zimbabwe e un giovane lupo maschio, decapitato, è stato messo in mostra nel cuneese. Terre lontane, animali diversi, stessa brutalità. In entrambi i casi bracconaggio, anche se sul primo grava un giro di tangenti che ti fa capire come le riserve siano, a volte, solo un bacino di pesca per squali annoiati.
Credo da tempo che il desiderio di sfogar la propria violenza su chi è messo in condizioni di inferiorità e debolezza sia un meschino sintomo di mancanza di umanità. Sembran tanto convinti di sembrare grandi e minacciosi, quando sparano a un leone o decapitano un lupo, ma in realtà assumono più i contorni di bambini cresciuti, con un fucile purtroppo vero e una coscienza tristemente fasulla, impegnati a far capire chi ha più grosso l’ego, ché a misurar parti intime deve essergli andata male, per durata o per quantità.
La vita – sacra, anche quando appartiene a chi paga di più per uccidere – ha nella mia scala di valori un prezzo enorme, spaventoso e, soprattutto, collegato a mille variabili, portatore di mille conseguenze. I cuccioli di quel leone, ad esempio, non sopravviveranno al cambio di guardia: i nuovi dominanti, nella lotta per il branco, li uccideranno. La cosa, se uno perdesse tempo a controllare l’effetto farfalla, farebbe fin spavento. La vita è una catena che regge tante collane: basta rompere un anello per distruggere tutto.
Per questo non mi sentirete mai dire che “quello è da ammazzare”. Nemmeno se si trattasse di un criminale efferato, neppure nel caso di un mostro fatto e finito. Sono convinta che l’esistenza sappia essere premio e punizione e, nel caso di assassini a sangue freddo, convivere alla ricerca della propria coscienza o con gli occhi ben puntati nelle conseguenze possa essere una condanna ben più pesante di una fucilata.